
ALDO MINARI 29 novembre 2018
Folco Orselli racconta il suo "BLUES IN MI" a Milanoplatium.com
Sono passati tre anni dal suo ultimo album (Outside is my side) e Folco Orselli si ripresenta con un album maturo, che alterna sapientemente momenti di ilarità a profonde riflessioni sulla vita.
Dodici brani che tracciano un ritratto in chiaroscuro di una Milano che sembra scivolata via da qualche tempo, ma che non vuole in realtà essere dimenticata, in tutte le pieghe della sua anima metropolitana.
L’avevamo intervistato all’uscita di Outside is my side, e ora siamo ancora qui a chiacchierare con lui. Come hai trascorso questi ultimi tre anni?
Li ho trascorsi in un tritacarne gigante. Ho iniziato a lavorare a un disco che si è trasformato in due dischi (Blues in Mi vol. 1 e vol. 2) che si sono trasformati in un un doc-film sulle periferie di Milano, il loro blues e l’integrazione tra culture diverse. Passando attraverso stadi difficili. Sono partito da una crisi creativa che mi aveva immobilizzato per anni, la famosa pagina bianca, che ho imbrattato di gioia nel momento in cui mi sono accorto che la paranoia di non riuscire a scrivere qualcosa che mi piacesse era frutto appunto di una proiezione della mia mente, irreale. Dal disco al progetto più ampio è stato un passo naturale, visto che mi sono sempre occupato di Milano, il convitato d’asfalto di molte delle mie canzoni, e della visione “periferica” delle immagini. Quando alzi la posta devi mettere in conto un acuirsi dei problemi e così è stato. Diciamo che ho stabilito una meta importante e le forze avverse si sono scatenate, dandomi la possibilità, la meravigliosa opportunità, di una crescita personale, di trasformare il veleno in medicina. Credo proprio che questa operazione alchemica proseguirà per tutto il 2019, fino alla meta appunto. Almeno ho qualcosa di importante da fare.
Affrontiamo ora la tua ultima fatica e proviamo a ripercorrere insieme a te i motivi, le sensazioni, i momenti che ti hanno incoraggiato a scrivere questi dodici nuovi brani. La gente: iniziamo subito con una potente colonna ritmica, una batteria che omaggia Walk this way degli Aerosmith. Quasi 10 minuti di canzone, in cui si raccoglie una serie esilarante di luoghi comuni che possiamo bene o male ritrovare quotidianamente intorno a noi o dentro di noi. Ci spieghi la genesi di questo pezzo?
Una genesi assurda, onirica. Ho sognato un mio grande amico musicista, Sergio Cocchi, che mi canticchiava un verso della canzone. Era già così, con questo ritmo ostinato e riff di chitarra. Eravamo in studio di registrazione e mi cantava, su una base che proveniva dalle casse, proprio le prime frasi del testo: “ Cosa significa, fare parte di un giro, cosa significa, fare parte di un coro”. Mi sono svegliato e ho cominciato a canticchiarla nel dormi veglia. Mi sono cominciate ad arrivare tutte quelle parole e ho dovuto per forza accendere il telefono e, dal letto, cominciare ad annotarle. Ne annotavo una decina e poi tentavo di dormire. Ma ne arrivavano delle altre e l’operazione ricominciava. Sono andato avanti un paio d’ore poi, finalmente, mi sono riaddormentato. Il giorno dopo avevo il testo e non ho fatto altro che farne un provino e così è rimasto. Diciamo che è una visione della gente da parte del mio inconscio.
Pericolosamente retroattivo ci avvolge con le sua atmosfera notturna e ci racconta una storia un po’ pulp, alla Milano Babilonia, una sorta di avventura notturna che rimanda ad atmosfere burroughsiane da Pasto nudo. Cosa ci racconti in questo brano?
È un mio bilancio fino ad ora. È stato il primo pezzo che ho scritto per questo lavoro. Venivo appunto da una crisi creativa e quando finalmente mi sono affrontato, legandomi alla sedia come l’Alfieri di “Volli, volli, fortissimamente volli!”, non ho potuto far altro che raccontare a che punto ero con la mia carriera artistica. Mi sono accorto che ho conservato ancora un po’ di sana incazzatura, che mi permette di tirare avanti in questo periodo storico del mediocre e del carino. È un blues, in termini tecnici si definisce un ostinato. Come me.
Uno dei pezzi blues più esilaranti di Blues in MI: Como e carne traccia il ritratto della provincialità, con un arrangiamento cadenzato e coinvolgente. Como è una città, certo, ma ha usi e costumi molto distanti da Milano, meno affettati, più ingenui, ma senz’altro più genuini. Realtà o finzione? Esiste davvero questa “musa” comasca?
Come dicevo, durante la mia liberazione dalla paranoia del blocco, ho incontrato fasi di gioia e ho riscoperto il piacere di scrivere in modo ironico. Mi sono divertito a scoprire che l’aspetto comico dell’esistenza, che tanto mi piace percorrere quando non mi occupo di musica, è comunque un ottimo bagaglio a cui attingere, e funziona! Ho pescato dalla lezione di due miei grandi maestri: Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Mi ricordo che l’ho scritta durante una lunga passeggiata per Milano. Ho fatto un Frankestein di immagini che registravo sul registratore vocale del telefono. Per quanto riguarda la musica, mi sono rifatto a un’altra delle mie passioni, i Pink Floyd di Another Brick in the Wall, difatti poi mi sputtano da solo all’interno del solo. Per quanto riguarda il testo, non ti dirò mai la verità su questo pezzo. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere…
Oh Marlene è un pezzo allegro, ben ritmato, con un sound un po’ d’antan, ma ambientato ai tempi dell’edizione milanese di Expo. Chi è questa Marlene?
Un altro pezzo ironico che racconta di vite sconclusionate che ci corrono a fianco. Questa moltitudine di vite, che vive il tempo con noi e di cui mai verremo a conoscenza, mi affascina da morire. Marlene è una bella ragazza bionda che ha studiato lingue e che accompagna i turisti americani all’Expo e lui è un tizio che fa lo skipper sui catamarani. Si sono incontrati ad Orio al Serio e si sono fatti una storia d’amore. Poi lei ha cominciato a mangiare quintali di brie e a bere gin. Cose che possono succedere… Il pezzo è un “second line” tipico di New Orleans, altra mia grande passione che aleggia qua e là. Avevo in mente Dr. John, un grande musicista di New Orleans appunto, che da anni mi ispira.
Percussioni e sound alla Santana, ma anche echi del Ry Cooder di Alamo Bay e di alcuni stupendi pezzi dello scomparso Roberto Ciotti. Che tu lo voglia o no conquista con le sue note da viaggio “on the road”: qual è il messaggio che vuoi comunicare?
Hai centrato in pieno tutto: Santana soprattutto è stato da sempre uno dei miei eroi della chitarra. Anche Ry Cooder, soprattutto quello dell’album “Jazz” che ho divorato. Ciotti, che ho ascoltato molto attraverso le colonne sonore di Salvatores, e che ho sempre apprezzato per il suo fraseggio pulito e per essere uno dei precursori del blues italiano, l’ho incontrato qualche anno prima che morisse alla fu Salumeria della musica e mi sorprese che conoscesse i miei dischi. Abbiamo passato un’oretta a bere birra e a parlare di blues. Il pezzo è scaturito da una riflessione: che lo si voglia o no, abbiamo tutti una responsabilità nei confronti di questi tempi: “dobbiamo prendere spunto e trasmetterlo” ai nostri figli? Ai nostri posteri? Insomma, parafrasando Faber, malgrado ci si senta assolti siamo per sempre coinvolti. E di ’sti tempi ancora di più…
Siamo al pezzo più dark di tutto l’album. Una canzone alchemica, ricca di cose dette tra le righe e con un codice lessicale che si stacca da tutto il resto. È la storia di una bambina di 5 anni che viene accusata di essere il crogiuolo del demonio, con tanto di madre che chiede perdono, e un’inquisizione spietata che ne tronca l’esistenza. Cosa c’entra con Milano questo bellissimo brano?
Milano ha avuto tra il ‘300 e il ‘500 un periodo buissimo per quanto riguarda il contrasto alla presunta stregoneria. Piazza Vetra era il luogo in cui venivano messe al rogo persone innocenti, solo perché avevano probabilmente dei disturbi bipolari o qualche altro genere di devianza che ora la psicologia e la psichiatria, nonché la sociologia, ci spiega. La canzone è stata scritta dopo aver letto un saggio di Parinetto, docente di storia all’Università Statale di Milano, sulla stregoneria. L’ignoranza è un fiume carsico, un tempo si bruciavano le streghe per affermare un potere, il potere ecclesiastico sul popolo. Li si induceva a pensare che il diavolo si nascondesse nelle coscienze, e i roghi della chiesa erano necessari per allontanarlo. Ora i poteri sono cambiati ma l’ignoranza è ancora un terreno fertile per presunte protezioni da parte di “nuovi” poteri.
Il gioco mi ha ricordato fin da subito nella ritmica e nella melodia di fondo una tua canzone che apprezzo particolarmente, Vecchi vestiti nuovi. Anche questo pezzo è maturo, interpretato in maniera composta e compassata. Siamo molto distanti dal Folco che urlava alla Luna della Stirpe di Caino. Un altro brano interessantissimo e arrangiato con una chitarra alla Dire Straits. Ce lo racconti?
Il gioco l’ho scritta pensando ai nuovi poteri di cui sopra. Questa nuova ondata di autoritarismo, di bisogno dell’uomo forte ha portato prima Trump (ma Putin già era in gioco) poi Salvini, ad affacciarsi sui nostri tempi. Questo riflesso pavloviano che la gente, in larga parte, ha fatto suo, è un riflesso indotto a mio parere dalla mancanza di conoscenza interpersonale. Trovo che molte persone ce l’abbiano, per esempio con gli immigrati: per sentito dire. Lasciamo perdere i problemi legati alla sicurezza delle persone, che quando sono reali vanno affrontati e risolti. Ma quando si affrontano discorsi complicati, epocali, con toni qualunquistici, ecco che anche le ragioni passano in secondo piano, lasciando campo a quello che molti chiamano populismo, ma che io chiamerei giudizio superficiale; un qualunquismo indotto dalla scarsa conoscenza delle vere cause che portano alle grandi migrazioni. La canzone parla di questo, di quanto i potenti usino la paura e l’ignoranza per soggiogare i popoli, e un’altra volta hai azzeccato il riferimento a Knopfler, che è un altro dei miei miti.
Dopo due brani riflessivi, si torna a sorridere con Lo scaldabagno. Un Folco “classico”, morbido, sornione, a cui piace ridere complice insieme a te. Stavi cambiando l’arredo o proprio tutta la casa?
Ho scritto questo pezzo in maccheronico inglese, e ancora una volta volevo planare a New Orleans per immergermi nel “dixie” più sfrenato. Il pezzo si intitolava provvisoriamente Kiss you from the Bayou. Il “bayou” è la zona vicino al Mississippi, il fiume che bagna la città. Stavo arrovellandomi su come portare questo testo finto inglese in italiano e mi è venuto in soccorso Claudio Sanfilippo, grande cantautore nonché grande amico. Ho apprezzato moltissimo il suo lavoro Il zen del swing, uscito qualche anno fa, per il suo modo di mettere in suono le parole e di usare la poesia, soprattutto quella delle cose piccole che tanto mi piacciono. Gli ho proposto di scrivere per me un testo sul pezzo e una sera al baracchino abbiamo convenuto che il titolo dovesse essere Lo scaldabagno. In qualche giorno me lo ha proposto e io devo dire che ho cambiato davvero solo qualche parolina qua e là per adattarlo al mio swing, ma era perfetto! Per il resto il grande pianismo di Enzo Messina, che anche per questo disco ho voluto al mio fianco come arrangiatore e musicista. Ormai una coppia di fatto!
“Cin Ciun Cian Blues”: ormai già celebre, Paolo Sarpi Blues ci accompagna per le viuzze affollate della Chinatown milanese, colme di omini che corrono sotto il peso di pesanti pacchi, ma anche animate da bellezze orientali da “massage bistrot”… Un brano irresistibile in dialetto, che traccia un quadro fedele della Milano “gialla”.
Sono partito dal raggio per arrivare alla circonferenza delle periferie. La comunità cinese è un ottimo esempio di integrazione positiva ed è la più antica a Milano: già dal ‘600 erano in città. La zona di Paolo Sarpi è allegra, simbolo di convivenza tra due culture che si sono perfettamente affiatate. Mi piaceva usare il milanese per descrivere, in modo canzonatorio come si fa tra buoni amici, quello che ti può succedere quando vai a farti aggiustare il telefono da Johnny FiX. Abbiamo girato un video del pezzo con Il Terzo Segreto Di Satira e con tutti i loro attori che sono tutti miei amici fraterni da anni.
La notte ha mille occhi (Louisiana) ci porta nelle praterie degli Stati Uniti centrali. Atmosfere alla Madison County, con una slide guitar che scivola a tratti come quella del Ry Cooder di Paris Texas. “Avevo in mente un viaggio che spostasse la mia voce un po’ più in là”: ci parli di un viaggio reale o metaforico, in quella notte con mille occhi?
Quando ho cominciato a pensare di scrivere “Blues in MI” volevo farlo a New Orleans. Volevo trasferirmi lì due mesi e vedere se l’atmosfera del luogo potesse fare da corroborante alla scrittura e scacciare la mia maledetta crisi creativa. Quindi “Avevo in mente un viaggio che spostasse la mia voce un po’ più in là”. Invece è bastato soltanto che mi sintonizzassi sull’onda, che cominciassi a ragionare in quei termini e mi si è aperto il vaso di Pandora. È uscita tutta questa musica e queste parole. Per questo pezzo ho collaborato al testo con Gianluca Martinelli, paroliere e storico collaboratore di Carlo Fava altro mio grande amico e grande cantautore. Per la Louisiana ci sarà un altro tempo. Magari Blues in MI vol. 3 e 4.
Siamo in campagna, dove “l’odore del fieno maturo” avvolge le narici insieme a Quel che resta di te. A chi pensavi quando hai composto questo pezzo?
Ogni tanto capita di sentire di qualcuno che sparisce di colpo. Il giorno prima era al lavoro, è tornato a casa, ha cenato con la famiglia, è andato a dormire. Il giorno dopo, finita la colazione è andato al lavoro come sempre e, da quel momento, nessuno lo ha mai più visto. Sono tragedie certo. Ma nascondono un lato libertario che mi affascina. Detto che i fatti di cronaca nera non li auguro a nessuno, mi piace però pensare che qualcuno abbia tirato la cinghia “espulsione rapida” e si sia rifatto una vita. Mi rendo conto che la cosa è un po’ vigliacca, ma mi affascina. Ho scritto questo pezzo insieme a Flavio Pirini altro mio grande amico cantautore. Non sapevamo di stare scrivendo la storia di cui sopra, ma alla fine, senza dirci nulla, scrivendo una strofa a testa a distanza e mandandocela, è venuta fuori questa vicenda. Il pezzo musicalmente mi piace pensarlo come una “road song” alla Clapton, con la birra tra le gambe e una decappottabile che mangia la strada.
Bicchierate è la tua My Way, un’eco di quei momenti alcolici capaci di far dimenticare quello che si preferisce non ricordare. Sinatra cantava anche “Fly me to the moon, Let me play among the stars”: a tutti è capitato di vedere le stelle dopo un bicchiere di troppo, ma questo brano ci racconta di un irriducibile dal bicchiere facile alla Buscaglione, che inizia a maturare contezza, serata dopo serata, del fatto che prima o poi dovrà darsi la proverbiale “regolata”, magari anche solo per evitare che la moglie gli faccia “delle menate”…
Sì è proprio così. È una canzone a cui sono molto affezionato e che mi piace molto eseguire dal vivo. Una ballatona da fine concerto, da suonare strascicata. Quando le luci si stanno per spegnere e già pregusti la bicchierata finale per festeggiare la serata. Poi ti guardi dentro e pensi che è anche il preludio alla discesa dal palco, che lascia sempre l’amaro in bocca… in questo caso “Del Capo”.
Ultima domanda: il titolo Blues in MI nasconde qualche altro significato e, soprattutto, a quando un vol. 2?
Blues in MI significa Milano, “mi” e “ti” in dialetto e il Mi è uno degli accordi più usati dai chitarristi blues. Blues in MI vol. 2 verrà presentato a novembre 2019 dopo il percorso filmato lungo l’anno e conterrà le 10 tracce che ho già registrato, oltre a musica e canzoni originali che registrerò per il film.